Intervista a Roberto De Angelis contenuta nell’albo Speciale n°18 di Tex “Ombre nella notte” uscito nel Luglio del 2004.

“ROBERTO DE ANGELIS: VISIONI DA UN ALTRO PIANETA” di Gianmaria Contro

Un segno nitido e dinamico, suggestivo e inconfondibile, perfettamente a suo agio nelle fredde lande della tecnologia futura, ma capace di rendere giustizia alla plasticità dei corpi e delle espressioni, nel bianco e nero, così come nel colore, qualunque sia il genere cui si dedica. È il ritratto essenziale di Roberto De Angelis, disegnatore e copertinista della saga fantascientifica di “Nathan Never”, chiamato oggi a interpretare l’universo western di Aquila della Notte. Quarantaquattrenne, di origine napoletana, De Angelis ha attraversato molti territori dell’immaginario, affinando ogni volta le sue potenzialità espressive. L’erotismo è il suo primo “esercizio di stile” (negli anni Ottanta, realizza alcune storie brevi di questo genere per l’editore Francesco Coniglio), ma la duttilità del tratto emerge in tutta la sua forza nell’horror estremo e irriverente delle testate Acme, “Splatter” e “Mostri”, che insanguinano le edicole italiane per un breve periodo. Nei primi anni Novanta, De Angelis incontra il suo grande amore, la fantascienza, grazie alle avventure dell’androide Kor One, scritte per lui da Ade Capone e pubblicate sulle pagine del mensile “L’Eternauta”. Nel frattempo, però, ha già allacciato i primi legami con la Sergio Bonelli Editore, realizzando proprio il “Numero Zero” di Nathan Never. Da allora, il suo sodalizio con via Buonarroti si è via via rafforzato, mettendo a punto un’impronta grafica che ormai è il marchio distintivo dell’Agente Alfa. A questa mano eclettica e a quest’occhio visionario è spettato il compito di raccogliere la sfida lanciata da Tex… A lui la parola!

Per cominciare, una domanda d’obbligo: la sua passione per il disegno viene da lontano?

Da lontano, ma non da lontanissimo… Ho cominciato ad avvicinarmi a questo mestiere piuttosto tardi, intorno ai vent’anni. Non so quale molla invisibile sia scattata dentro di me, forse tutto l’insieme degli stimoli e delle sollecitazioni della fantasia raccolti strada facendo ha fatto all’improvviso “massa critica”. So soltanto che mi sono ritrovato su questo sentiero e ho deciso di seguirlo per vedere dove portasse. Così, ho cominciato quel lungo percorso di formazione che ogni aspirante disegnatore deve imporsi: giorni e notti insonni chiuso in casa, alla ricerca del tratto giusto, della tecnica grafica necessaria per portarmi al risultato che avevo in testa.

Quindi, non ha seguito scuole specializzate?

No, sono un autodidatta e un “anti-accademico” per vocazione. Certo, raccogliere l’esperienza altrui è importantissimo, ma credo che, alla fine, ciò che conta veramente sia la strada che uno fa con le proprie gambe, elaborando incessantemente ciò che ha imparato. Ancora oggi, non posso dire di avere un vero e proprio “metodo” di lavoro; ogni volta che mi siedo al tavolo da disegno, devo reinventare e ritrovare un percorso dentro la storia che sto raccontando… Questo mi aiuta a non stare mai troppo fermo su me stesso e a rinnovare sempre la vecchia passione.

Il suo viaggio nel mondo delle nuvole parlanti comincia su una fanzine, “Trumoon”, nel lontano 1983… Che cosa ricorda di quella esperienza?

Ricordo soprattutto l’entusiasmo. Eravamo uniti – io, Luigi Coppola, Giuliano Piccininno, Giuseppe De Nardo, Bruno Brindisi, Raffaele Della Monica e Luigi Siniscalchi – dall’idea di essere propositivi; non si trattava certo di dare l’avvio a chissà quale “rivoluzione” del fumetto, ne tanto meno, di gettare fango sul lavoro altrui, ma soltanto di dare spazio e sostanza a una nostra passione personale, con buona volontà, per proporre ai lettori storie affascinanti, divertenti, raccontate con un ritmo che lasciasse il segno. È stato un esperimento che ricordo sempre con piacere.

Qualche anno dopo, “Kor One” segna il suo ingresso ufficiale negli universi della fantascienza. Da dove è nata e come è cresciuta la passione per questo genere? E se dovesse elencare le sue principali fonti d’ispirazione, quali opere l’hanno “segnata” particolarmente?

Ricordo “Kor One”, una vicenda di ispirazione “cyberpunk”, con androidi che si scontravano in duelli spietati. È stata una delle prime esperienze autenticamente professionali, in cui ho imparato la disciplina e la serietà che questo lavoro richiede… L’incontro con la fantascienza risale a molti anni fa, alla visione di quelle pellicole che il cinema americano degli anni Cinquanta e Sessanta realizzava con pochi fondi e moltissima fantasia, come “Ultimatum alla Terra”, di Robert Wise, o “La guerra dei mondi”, di Byron Haskin, tratto dal capolavoro di Herbert George Wells… Vederli, per un ragazzino, era un’esperienza stravolgente, un’occasione per fantasticare, prendere il volo e visualizzare universi e creature impossibili. Poi è arrivato Ridley Scott, che è stato capace di rivoluzionare l’immaginario fantascientifico. Per chi fa il mio mestiere, cioè lavora con le immagini, assistere a film come “Alien” e “Biade Runner” è stato come svegliarsi da un sogno in bianco e nero e scoprire i colori per la prima volta. L’interno dell’astronave Nostromo, i paesaggi extraterrestri, lo stesso design del mostro sono di straordinario realismo e, nello stesso tempo, ai limiti dell’immaginazione. Una specie di “incredibile credibile”. Credo che qualsiasi lettore attento possa accorgersi di quanto sono stato colpito da queste invenzioni, di quanto lo sia stato tutto l’immaginario fantascientifico da quel momento in avanti. L’opera dello svizzero Hans Ruedi Giger, che ha curato le scenografie di “Alien”, è sicuramente un punto di riferimento per chiunque voglia creare esseri fantastici, partendo da una base realistica, tecnologica; Giger ha creato una vera e propria estetica della bio-meccanica, della fusione tra animato e inanimato. Allo stesso modo, la plumbea, piovosa Los Angeles che fa da sfondo a “Blade Runner” ha fissato i canoni dell’immaginazione per quanto riguarda le città del futuro… Credo che le scelte grafiche del “mio” Nathan Never siano fortemente influenzate da tutto questo.

E nella letteratura?

Il primo scrittore che mi viene in mente è John Wyndham, il grande “creatore di catastrofi”, di minacce che sbarcano nella quotidianità e la fanno a pezzi. Basta pensare alla sua opera più famosa, “Il giorno dei trifidi”, un’invasione di strane, gigantesche piante semoventi che colonizzano il nostro pianeta. Oggi può sembrare un’idea datata, ma quando Wyndham pubblicò il romanzo (erano gli anni Cinquanta), ebbe un successo straordinario, tanto che ne fecero anche un film… un brutto film, purtroppo! A proposito di film, di bei film in questo caso, che dire de “Il villaggio dei dannati”? Non dimenticherò mai gli occhi “al neon” di quei terribili bambini telepatici… e anche loro erano creature inventate da Wyndham.

Chi metterebbe al fianco di Wyndham?

Senza dubbio, Philip K. Dick! Anche se, in questo caso, non stiamo parlando soltanto di uno scrittore “di genere”, ma di uno scrittore e basta. Per lui, in fondo, la fantascienza era più che altro un pretesto per mettere in scena le sue visioni e le sue teorie sul mondo in cui viviamo. Dick era un visionario, per metà filosofo e per metà “profeta”, e la scrittura fantascientifica gli dava la libertà di movimento di cui aveva bisogno per raccontare le sue incredibili storie. In realtà, credo si possa dire lo stesso di quasi tutti gli scrittori di valore; non ha molta importanza qual è il genere che scelgono, ma la storia che raccontano e come la raccontano. Che il genere scelto sia fantascienza, giallo, western, poco importa…

Quali disegnatori e illustratori hanno maggiormente influenzato il suo stile grafico?

Mi dispiace doverli citare soltanto in un rapido elenco, che non rende giustizia alle particolarità di ognuno… Direi, senza dubbio, Paolo Eleuteri Serpieri, con la sensualità e la morbidezza dei suoi tratti, poi Enki Bilal, straordinariamente immaginifico, come, del resto, Juan Gimenez, e infine José Mufloz, che considero un vero e proprio “maestro spirituale”.

Da molto tempo, si occupa quasi esclusivamente di Nathan Never. Qual è il rapporto che instaura con i suoi personaggi? È soltanto professionale o riesce ancora ad appassionarsi e affezionarsi alle loro vicende?

Nel bene e nel male, il mio rapporto con i personaggi rimane sempre passionale: non potrei rappresentare cose che non sento. Nel bene, perché questo approccio mi aiuta a tenere “vivo” il loro agire, mi sprona a cercare nuove soluzioni, a dare maggiore dinamismo alle loro avventure, battaglie, vittorie e sconfitte. Nel male, perché se non condivido un certo sviluppo narrativo o se il ritmo non mi soddisfa, ho sempre l’impressione che anche la qualità del mio lavoro ne risenta.

Lei si è confrontato con molti generi narrativi (erotico, fantasy, horror, comico), ma, come abbiamo visto, la fantascienza sembra essere la sua vera passione… Dunque, come ha affrontato il western di Tex?

Incontrare il capostipite di Casa Bonelli è stato emozionante, quel tipo di esperienza che mescola perfettamente entusiasmo e paura. All’inizio, ero molto preoccupato: mi chiedevo se sarei mai riuscito a entrare in sintonia con gli spazi e gli scenari dell’epopea western di cui Aquila della Notte è il naturale rappresentante. Così, mi sono messo a guardare film western, come se cercassi di calarmi in atmosfere e luoghi che avevo frequentato in modo superficiale, semplicemente “assimilandoli” al momento. Poi, ho capito che l’unico modo era quello di lasciarsi andare, affrontare il personaggio di slancio, senza pensarci troppo. E Tex mi è venuto incontro!

Nathan Never è spesso segnato da una vena di malinconia e introversione, mentre il Ranger appare sempre sicuro di sé. Never si muove in megalopoli oscure e sovraffollate, Tex in spazi e paesaggi illimitati… Tutto questo come ha modificato il suo stile grafico?

Certo, il problema è proprio questo: Nathan Never è indubbiamente, almeno in certi aspetti del suo carattere e della sua storia personale, un personaggio “crepuscolare”. Volendolo descrivere come se fosse un western, si potrebbe dire che richiama i personaggi del cinema di Sam Peckinpah, quello degli “eroi stanchi”, duro e determinato quando necessario, ma comunque assediato da mille dubbi e laceranti ricordi. Tex, invece, è una roccia! È tutt’altro che semplice come personaggio, ma è sempre deciso, ha sempre dentro di sé una specie di binario invisibile che lo porta dritto dove deve andare. E tutto questo si riflette nel modo in cui lo si rappresenta sulla pagina: gli spazi di Tex sono quelli della Frontiera selvaggia con grandi distese, montagne, sole intenso… Insomma, ho dovuto lavorare molto sulle prospettive, ma anche sui modi e sui tempi della narrazione. Mi ha aiutato enormemente il costante dialogo con Claudio Nizzi. Lo sceneggiatore di Tex è una vera e propria “enciclopedia della memoria” e insieme un vero “gentleman” d’altri tempi; non lo ringrazierò mai abbastanza.

Forse l’ha aiutata anche il tema della storia contenuta in questo Texone. In fondo, un pizzico di “fantastico” c’è anche qui…

Sì, è vero. Anche se – non vorrei anticipare troppo ai lettori – qui si parla di mostri creati con una sorta di alchimia, più che di una qualche diavoleria fantascientifica o tecnologica. È qualcosa che ricorda il vecchio dottor Jekyll… Del resto, Tex non ha mai snobbato il fantastico; al contrario. Stregoni, mostri, esseri sovrannaturali si sono aggirati spesso nelle sue praterie. Alcuni dei suoi antagonisti “storici” (uno per tutti, Mefisto) sono personaggi che si muovono tra questo e altri mondi.

Lei che è un esperto di universi possibili, come vede il Tex del futuro?

Non c’è risposta più semplice: splendidamente uguale a se stesso. Il segreto di Tex è lì, nell’essere sempre e comunque un amico leale, uno di cui ci si può assolutamente fidare!